di Carmen Piccirillo
Psichiatra, sociologo, educatore e saggista, Paolo Crepet è nato a Torino nel 1951. Laureatosi in Medicina e Chirurgia nel 1976, e poi in Sociologia nel 1980, nel 1985 ha ottenuto la specializzazione in Psichiatria. Dopo aver lavorato all’ospedale psichiatrico di Arezzo, lascia l’Italia per traferirsi in India. Ha lavorato in vari paesi, tra cui la Danimarca, il Regno Unito, la Germania, la Svizzera e la Repubblica Ceca. Successivamente, insegna a Toronto, a Rio De Janeiro e ad Harvard. In oltre quarant’anni di carriera ha pubblicato, in Italia e all’estero, diversi articoli tecnici, libri di saggistica e romanzi di narrativa. Spesso ospite di trasmissioni di approfondimento e talk show, interviene come opinionista ed esperto su svariate tematiche, tra cui l’ambito della famiglia e il disagio sociale in genere.
Come nasce la sua passione per la psichiatria?
Mi è sempre piaciuto incontrare le persone, ascoltare le loro storie con curiosità, “occuparmi” della loro vita: tutto questo mi ha contraddistinto sin da ragazzo, ancor prima della scelta di iscrivermi alla Facoltà di Medicina. Mio padre faceva il medico: ero molto attratto dal suo lavoro, dall’approccio che aveva con le persone. Passo dopo passo, è cresciuto il mio trasporto verso la psichiatria, che è solo una piccola parte di ciò di cui mi sono occupato nella vita.
Ha dichiarato che “la psichiatria ha a che vedere più con l’arte che con altro”. Cosa intende?
L’empatia, la capacità di ascolto, sono un’opera d’arte. Dico “arte”, nel senso di qualcosa non sempre decodificabile dal punto di vista scientifico: non ha regole precise, segue un istinto, una disponibilità d’animo.
Cos’è la felicità?
La felicità è un “orizzonte”, è caratterizzata da attimi. Personalmente ho avvertito la felicità nei momenti della mia vita in cui mi sono sentito realizzato, nel senso di aver provato piacere nell’aver incontrato determinate persone, nell’aver visitato determinati luoghi, nell’aver “vissuto bene”. Spero di poter imbattermi ancora in questo tipo di felicità.
Quanto è importante, secondo lei, assecondare la propria autenticità e proiettarla all’esterno senza “filtrarla”?
E’ importantissimo. La maschera teatrale è una pena, è una costrizione, è lo svolgimento di un ruolo, una interpretazione che “possiede” chi la attua. La libertà è tutt’altro, è esprimere sé stessi senza ipocrisia.
Nel suo libro, intitolato “Il Coraggio- Vivere, amare, educare”, si focalizza su un’ambiziosa forma di coraggio, quella che ognuno deve scovare in sé stesso per creare un nuovo mondo, quella che i giovani devono riscoprire per non trovarsi tristi e rassegnati a non credere più nei loro sogni. In che modo, secondo lei, è possibile “guardare in faccia” le proprie paure e i propri conflitti per tramutarli in coraggio?
E’ possibile guardare in faccia le paure e i conflitti con la consapevolezza che sono e saranno parte integrante della vita. Ciò che desideriamo, ciò che realizziamo, ciò che sogniamo: tutto questo crea, inevitabilmente, un conflitto. Il conflitto non è qualcosa di “armato”, non ha senso cercare di scansare i propri demoni interiori: la contemporaneità suggerisce di farlo, invece è importante accettarli.
Il mondo virtuale ha provocato gravi disagi, tra cui l’incapacità di ammirare la profondità di uno sguardo: si può tornare a sentirsi vivi?
Mi piacerebbe poter porre questa domanda ai giovani di oggi: se vogliono tornare a sentirsi “vivi”, la strada è molto divergente rispetto a quella che viene insegnata oggi. Le tecnologie digitali inducono a creare un proprio “mondo” non reale, questo accade da tanto tempo ormai. La vita virtuale è passata attraverso tanti step; oggi ci si confronta con un progetto molto più maturo, a mio avviso molto preoccupante, che è quello dell’intelligenza artificiale: potrebbe sostituire l’esistenza umana, ritengo che sia un’opzione terrificante. Lo sguardo, l’ascolto, le emozioni sono qualcosa di straordinario.
“La paura per il diverso ce l’ha chi non è mai riuscito a esserlo”. In questa sua affermazione è intrinseco il senso della bellezza di essere sé stessi.
Sì, per comprendere ad ampio spettro questo mio concetto si potrebbe usare la parola “unicità”. La “diversità” rischia spesso di essere ideologizzata, soprattutto negli ultimi tempi si attribuisce a essa una valenza negativa o positiva, come se fosse una partita politica. Ognuno di noi è unico, e faccio molta fatica a comprendere il motivo per il quale si voglia negare tutto questo: si tende a voler omologarsi. Molti pensatori avevano indicato come pericolo quello dell’omologazione, e purtroppo si sta verificando.
Quale messaggio vuole dare a chi, avvolto dal buio, sente di aver perso la capacità di lasciarsi abbagliare dalla luce?
Ho conosciuto persone che hanno trascorso una vita intera dentro un manicomio e, nonostante tutto, hanno ritrovato la loro luce. Se si vuole, si può “risalire”. C’è sempre la possibilità di vivere.